mercoledì 25 aprile 2012

Toilet chant


Uno dei momenti più gloriosamente blasfemi della sacralizzazione delle proprie giornate è il momento in cui ci si siede sul cesso.
Il corpo si sa, ha bisogno della propria messa gnostica quotidiana.
Quale rituale migliore delle contorsioni calde delle proprie viscere. Del piacere amniotico dello svuotamento delle sacche intestinali.
Il rituale prevede sacrificio.
La croce di trattenerla il più possibile.
Dare modo al proprio corpo di assaporare il momento in cui si libera di quel peso che comprime i propri nervi addominali.
Il sorriso che ti si stampa in faccia è una icona di innocenza e di umanità .
Ci dovrebbe essere un museo di visi e sguardi nell'estasi della defecazione.
Esistono raccolte fotografiche, siti internet , libri che raccolgono visi di orgasmi, visi del momento della morte, ma visi del momento in cui ci si svuota non risulta.
Un momento di puro piacere, quando ci si rende conto di essere soli nell'arco di una decina di metri almeno, e liberamente emettere una parte di noi a cadere in un buco di acqua sporca.
Ci sono gli sfortunati che non riescono mai a farlo e quando ce la fanno non è abbastanza.
Un conto poi è praticare questi pochi santi minuti nel proprio luminoso e sanificato cesso di casa.
Ma il vero atto d'amore è quando ti arrampichi in una fetida latrina pubblica, vagamente puzzolente di piscio caldo, dove riesco a piazzarti sopra una turca perennemente bagnata e pronta a raccogliere le spruzzi di vita bollenti di qualsiasi essere umano che gli si presenti sopra.
Immaginatevi la storia di un cesso pubblico.
Un tempietto di piastrelle blu scuro lucide, finti marmi appena posati e una porta bianca con chiavistello.
Dalla prima pisciata della sua storia quel cesso diventerà un solitario girone dell'inferno Dantesco.
Non ci vorrà poi molto che le pareti si impregnino indelebilmente di una presenza umida e strisciante che negli anni ribolle sul pareti del gres porcellanato della turca.
La porta diventa un muro di Berlino scrostato e raffigurante cazzi ,numeri di telefono, buchi di culo aperti in cerca d'amore e svastiche rosse.
Una scatola di plastica vuota appesa al muro in ricordo della carta lavamani.
Un cesso pubblico come quello, prima di crollare definitivamente ospita ogni manifestazione di deiezione umana, di scopate feroci addosso alle pareti, di pere e schizzetti di sangue , di mestruazioni, di fazzoletti usati di vomito, di telefonate, di presenze umane lasciate a se stesse.
L'equivalente di una chiesetta abbandonata in mezzo ad un campo, il cesso pubblico ospita le crude messe del corpo umano, cosi intimamente amato e coccolato nelle sue manifestazioni umide.
Con vetro della finestrella incrostato di una patina marroncina e ragnatele condensate.
Il termosifone scrostato ad avvolgere il fuggiasco dal freddo invernale che ha bussato alla porta.
Il naufrago solitario della strada che si ritrova seduto a contemplare il piacere che dal proprio ano dilatato vibra lungo la schiena raggiungendo i caldi prati della sua mente.
Il cesso, metro di misura di una civiltà, cappella privata di ogni casa e pubblica abbazia dell'uomo moderno, immagine della vergogna di noi stessi ma oracolo d'amore per i consapevoli della gloria del proprio corpo, trasfigurato in uno spazio ipercubico nella atto di riciclare materia fisica che permetta il perenne avviluppamento delle carni attorno ad un lungo tubo vuoto che parte dalla bocca per finire in un orifizio magico che l'uomo comune chiama culo.




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